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Il tema dell'ombelico del mondo, come è noto, è universale. E' banale ricordare come ad esempio gli Elleni, dopo la semileggendaria prima guerra sacra, la distruzione di Crisa e l'ampliamento-accorpamento della controversa federazione religiosa di Antela nell'anfizionia delfica, identificassero il loro omphalos ("ombelico", appunto), nel santuario di Apollo a Delfi, posto approssimativamente nel centro geografico dell'Ellade (=inizialmente la Grecia centrale, poi tutta la penisola ellenica).

Ogni civiltà arcaica ha in genere il suo fulcro cosmico: nel momento in cui una società complessa si viene strutturando, essa ridefinisce lo spazio nella quale ha finito per organizzarsi e lo ridefinisce in base all'eredità culturale che porta con sé dai tempi del primitivo nomadismo. La regione geografica in cui una società nasce subisce in tal modo una vera e propria distorsione etno-spaziale.

Civiltà superiore originaria? Diaspora primigenia? A mio modo di vedere, il processo di definizione del simbolo è nella sostanza più complesso da delineare e in apparenza meno eclatante dal punto di vista della sua causa.

Tutte le straordinarie civiltà che homo sapiens ha creato all'origine dell'età antica costituiscono l'affioramento di un'eredità stratificata. Agli occhi dell'uomo contemporaneo, esse appaiono come prodigiose gemme sbocciate in mezzo al nulla. Di qui l'esigenza di trovare (magari disinterpretando le fonti scritte e orali) una matrice primeva, il luogo d'origine, "il punto che non tiene" nella nebulosa storia del principio. La distorsione prospettica che determina quest'ottica ingannatrice nasce dall'incompletezza della documentazione unita all'idea, cognitivamente impropria per l'antico, che una grande realizzazione tecnologica, architettonica o semplicemente organizzativa, nasca sempre e solo da un'improvvisa rivoluzione, una frattura epistemica con il passato amorfo. Sfugge spesso un connotato essenziale delle civiltà arcaiche: la loro strenua tensione alla continuità nonostante le fratture oggettive che l'ambiente naturale impone agli uomini nel tempo (mutamenti climatici, crisi alimentari, eventuali disastri e conseguenti migrazioni) e nello spazio (montagne, oceani).

Per conservare questa continuità culturale le diverse specie umane (buone ultime i Neandertaliani e noi) che hanno percorso il pianeta nell'ultimo milione d'anni, posseggono come unici strumenti primordiali il linguaggio e la memoria. Linguaggio e memoria tesi alla conservazione dell'identità culturale si fanno mito, cioè parola originaria creatrice, intesa a preservare e perpetuare un bagaglio di ritualità, cognizioni, punti di riferimento vitali per il gruppo, di fronte alla continua minaccia di distruzione che l'ambiente stesso offre (per l'umanità arcaica ogni istante è un'insidia, praesentemque viris intentant omnia mortem, "e tutto agli uomini minaccia imminente la morte" è il caso di dire con Virgilio). Il mito, nella sua compulsività formulare, è il tessuto connettivo magico-rituale che collega il cielo alla terra (astri e punti notevoli sul territorio: montagne sacre, camini delle tende, piramidi e spiraliformi ascese sciamaniche sono tutte immagini dell'asse del mondo intorno a cui la sfera celeste ruota), il presente al passato (ogni novità, una volta che sia accettata, entra nella grande narrazione come se fosse sempre stata lì, e nel contempo verità primordiali si offrono con l'immediatezza dell'oggi, pur conservando tratti così primitivi da risultare quasi enigmatici), l'individuo alla totalità (quanti impliciti riferimenti cosmogonici, nelle medicine antiche, dai quattro umori di Galeno ai cinque elementi dell'agopuntura cinese). Tutto il reale, tutto vivo, è così unito in un improprio entanglement magico-religioso pampsichico, di cui spirale, vortice, Maelstrom, labirinto, mandala, sono la rappresentazione primordiale, intessuta dell'intreccio della poesia (che gli antichi bardi indoeuropei chiamavano tessitura di parole) e tenuta insieme dagli intrecci dei quipù, che in varia forma, dalla Cina alle Ande precolombiane, affiorano un po' ovunque quando la scrittura non è ancora nata. Nodi, spirali, intrecci e labirinti si dipartono da un centro venerando e terribile, sia esso l'antro di un minotauro o l'utero mostruoso di Gaia.

L'umanità, si è detto, fu per lungo tempo nomade, nelle savane, nei deserti, fra le montagne, infine sugli oceani, fra caccia e raccolta, fra orticoltura e pastorizia, prima di approdare all'idea di insediamento stanziale che per noi è fin troppo ovvia. Come nomade, non ebbe altra certezza che il cielo stellato sopra di sé e la memoria etnica originaria dentro di sé. Ogni nuovo luogo scoperto fu luogo della mente e del racconto, tappa sulla via dei canti, prima che luogo nello spazio, e ogni nuovo uomo nato in quel nuovo luogo fu l'uomo di sempre nella sua totalità, al centro dell'universo nel suo intero. L'uomo mesolitico, portatore del linguaggio della Dea (Marija Gimbutas), portò ovunque con sé anche il simbolo del grembo originario, colmo di acque, e del suo ombelico: punto cardine della "bara di freschezza" di terra umida in cui seppellire i propri morti nella posizione del nascituro nell'utero della madre, forzatene con legacci le giunture contro il rigor mortis, non tanto per impedirne il ritorno, quanto piuttosto per forzarne la resurrezione nel flusso della vita nel risveglio della Madre Primeva, che la si chiamasse, come i Baschi, Benzozia, come gli anatolici, Cibele, come i Greci, Demetra. Ogni nuovo luogo ebbe dunque il suo ombelico cosmico, fulcro del grembo in cui addormentarsi e rinascere. Non c'è un luogo in cui questa memoria ebbe veramente inizio, poiché dopo la diffusione della specie a partire dall'Africa centrale, per l'homo sapiens dei tempi della madre mitocondriale di duecentomila anni fa e per i suoi discendenti (poche migliaia), che sopravvissero alle crisi climatiche di centotrentamila anni dopo, ogni luogo fu nello stesso tempo nuovo ed originario -e in tal senso, primo di una duplice primalità, nel ricordo e nel futuro della tribù.

Di tempo in tempo, le acque femminili del grembo primordiale, sprizzate dall'omphalos di turno si fusero con le acque maschili del cielo in un connubio distruttore che dette origine a diluvii e sprofondamenti non tanto reali, quanto proiettati (letteralmente) nella sfera celeste del mito: Utnapishtim e Noè e Atlantide e la terra sommersa di Hiva nel Pacifico e i miti precolombiani del cataclisma universale (pachakuti), sono tutti connessi a questa descrizione di un cosmo ciclico che l'uno o l'altro Signore delle Danze distrugge e ricrea sul ritmo dei cicli precessionali, che l'uomo lentamente scoprì e raccontò, prima per prevedere la migrazione delle prede, poi per anticipare i tempi della semina.

Sul piano delle culture materiali, l'archeologia scopre, di tempo in tempo, nuovi focolai archetipici da cui ogni tecnologia e tradizione sembra essersi originata. Prima ancora di Gerico in Palestina (novemila anni fa), Gobekli Tepe, la città cultuale dei cacciatori mesolitici dell'Anatolia di più di diecimila anni fa, i monoliti emersi e sommersi del Giappone forieri del misterioso Jomon incipiente (da Yonaguni al men-hir di Hokkaido), i villaggi indiani inabissatisi alla foce dell'Indo (risalenti al 9500 a.C.), le controverse rovine sprofondatesi al largo delle Antille -e ancora prima, le grandi statue di serpenti e di dee madri scolpite nella roccia in Africa, tra Guinea e Kenya, fra i sessantamila e i ventimila anni fa: tutti luoghi e monumenti che lasciano intravedere un tempo di fioritura più antico, soffocato dalla fine di una glaciazione o dall'avvento di un periodo di aridità globale, e dalle inclemenze che ne derivarono: tutte meraviglie che ci sembreranno out of place, "fuori posto", perché ormai ad essere fuori posto, fuori della dimensione culturale originaria dell'identità umana e della sua spasmodica costruzione del senso, in realtà siamo noi. E noi stessi, per quanto lontano potremo andare, non rinveniremo mai traccia dell'ipotetica civiltà originaria superiore: incontreremo solo gli affioramenti di una memoria mitologica di specie; ma l'ultimo luogo della mente di una tribù nomade ancestrale, vinta per la prima volta da stupore sotto il brillare del cielo notturno, ci sfuggirà sempre, perché in verità l'avremo sempre avuto accanto, in una memoria che non sapevamo di possedere, tanto è per noi ovvia e vitale.



[Modificato da Interessato74 23/03/2011 14:28]