00 24/03/2011 01:14
Gentile Carpeoro,

Ho letto con l'attenzione che meritava il suo interessante specimen di summa symbolica.

Innegabilmente, gli spunti di riflessione sono infiniti. Per molti aspetti le soluzioni proposte appaiono davvero persuasive. Su alcuni dettagli rimango perplesso.

Partiamo dagli archetipi.

Se non erro lei li definisce come eventi naturali o soprannaturali, storici o metastorici, entrati a far parte della memoria ancestrale comune (inconscio collettivo). Gli archetipi che lei elenca in effetti rimandano alle opposizioni fondamentali di diverse metafisiche antiche (dai presocratici al platonismo) e appaiono costruiti, come lei ha ribadito qui e se ho ben compreso, su uno schema duale, frattura di un'unità fondamentale. Questi archetipi ricordano tuttavia più le idee platoniche, che gli archetipi di iunghiana memoria (come che li si enumeri). In effetti, lei sembra proporre un'idea dinamica di archetipo (evento, quasi innesco), in contrasto con la struttura formale, spesso fluida nella demarcazione ma statica nella sostanza, di arkhétypos in quanto impronta o stampo(typtein) primordiale (arkhé). Forse per mia limitazione, sono incline a leggere nel mito più degli archetipi iunghiani o simil-iunghiani (tratti psicologici fondamentali associati a stati e schemi relazionali di comportamento assimilati e annidati nell'inconscio profondo comune alla specie) che quelli platonici, i quali sembrano rispondere a una finalità di organizzazione logico-ontologica del reale nei suoi fondamenti. Il rapporto fra le due facce dell'archetipo, da questo punto di vista, mi appare problematico. Infatti, le storie che si delineano nelle fiabe e nei miti seguono al più un ordine di coerenza e simmetria e hanno come protagoniste delle figure archetipali definite associabili a classi di comportamenti particolari. Nel contesto in cui il pensiero platonico attinge la dimensione dell'archetipo come idea (principio tipologico formale trascendente intellegibile, autoconsistente ed esistente a sé), sembra invece dominare la dimensione che il filosofare platonico ascrive al logos, nei termini di generi dell'essere e di logica oppositiva, più che la dimensione del mythos, di cui pure Platone ad altro scopo si serve. Il rapporto mythos-logos in Platone è una tematica assai delicata (dirlo è banale). Platone (e il suo discepolo Aristotele questo merito lo riconsceva al maestro) fu l'ultimo a usare gli archetipi del mythos nella loro funzione autentica. Ma nel farlo attuò una sorta di transustanziazione concettuale: l'archetipo del mythos, che l'uomo greco sente immediatamente percepibile, si trasfigura in archetipo logico-computazionale. In genere, l'innovazione filosofica antica (che come al solito si presenta come riaffermazione coerentizzata della kultur tradizionalmente consacrata) ripropone termini e dinamiche tradizionali in vesti nuove. Così ad esempio sotto altri cieli Confucio, rettificando i nomi, impone un nuovo senso alla parola cinese classica che indicava il potere magico dell'eroe culturale, ridefinendola come virtù. Un processo simile a quello platonico: una dimensione tradizionale, rituale, viene ripensata in termini intellettualistici, subendo al contempo una trasformazione semiotica: talché, se ontologicamente le opposizioni archetipali da lei delineate potrebbero, in linea ipotetica, considerarsi un prius, empiricamente, sul piano storico-antropologico, il prius è invece proprio l'archetipo del mito come figuralità situazionale condivisa e radicata nella psicologia del gruppo. In pratica, viene prima la simmetria narrativa cara all'inconscio che si esprime nel tessuto del sogno e del mito e poi l'intellettuale logica binaria e l'opposizione monade-diade.

A loro volta, archetipi come l'Ombra (intesa come doppio), la diade androgina Animus-Anima, l'autorità incarnata dal vecchio saggio, e tutte le figure archetipali accessorie che Jung declina (un altro esempio è il materno nella sua ambivalenza creatrice e fagocitante), sembrano preesistere al mito non tanto come eventi di una determinata natura o soprannatura, quanto piuttosto come schematismi latenti della psiche, apriori kantiani dell'inconscio, acquisiti nello strutturarsi delle dinamiche parentali e di relazione. Da questo punto di vista, gli archetipi sembrano stare al mito come i miti alla letteratura. Il mito è una delle sedi in cui l'archetipo è riconoscibile (magari la più limpida), ma forse non è l'unica. Nell'ambito relazionale in cui l'archetipo come schematismo latente della psiche sembra strutturarsi, la segnicità pare, di fatto, un elemento irrinunciabile. Gli studi dell'etologia umana di Irenaeus Eibl-Eibesfeldt identificano a chiare lettere la segnicità preverbale che ancora oggi l'uomo si porta appresso come retaggio evolutivo stratificato. La segnicità intrinseca al comportamento come manifestazione sociale materializza di fatto l'archetipo nel concreto della relazione di gruppo. Tale segnicità primigenia si esprime, semplicemente, come esigenza di simmetria distintiva: distinguere, pertinentizzare l'io dal mondo esterno, il comportamento o l'entità amica da quella ostile etc. Il simbolo, come convenzione arbitraria, nasce verosimilmente da questo continuo reinterpretarsi del gioco comunicativo, fra mimica, rito, azione, comunicazione, tra-dizione come affidamento (ma anche tradimento), consegna, di un contenuto.

Pertinentizzare implica, ovviamente, dividere, ritagliare spazi nello spazio. Implica, ipso facto, la definizione del sacro, in quanto effetto del riconoscimento della potenza imprevedibile del reale di cui il gruppo ha esperienza. La relazione etimologica da lei instaurata fra templum e tempus, da tale punto di vista, coglie un aspetto vero del problema, ma nella sua interpretazione (non me ne voglia) se n'è di fatto offuscata la sostanza. Il templum non è templum perché ricostruttore di un certo tempus. Il termine tempus in sé, in latino, non indica un tempo del mito in senso specifico, ma il generico tempo. Né è vero che tempo sia il termine primitivo da cui deriva templum. Piuttosto, entrambi derivano da una radice *tem-, "tagliare", "separare", comune al verbo greco tem-no, é-tem-on "tagliare, dividere", che è alla base del termine greco tém-enos, "spazio sacro separato". Secondo un processo semantico comune a tutte le antiche lingue indoeuropee (e non solo a quelle), il sacro è separato, in uno spazio a sé, il tem-plum. Il tem-pus è invece, per altra via, divisione temporale, scansione, del flusso degli eventi, collocati in anni, mesi, settimane, giorni -e per altro tale scansione appare sacralizzata anch'essa, non solo nel tempo del mito, che in sé è il non-tempo da cui invece lo scandirsi particellare del tempo si dipana, bergsonianamente spazializzandosi. Una notazione ulteriore, che conferma questa equivalenza fra sacro e separato, è negli stessi termini sacro e santo, derivati dall'indoeuropeo *sak-, ancora una volta "tagliare".

Se consideriamo che il ruolo del simbolo è dividere, separare, pertinentizzare, automaticamente vedremo che simbolo e sacro sono entrambi figli della segnicità primaria della relazionalità umana, i cui archetipi appaiono sin da subito agiti in una dimensione che viene strutturandosi nel tempo come rituale, creatrice di senso -nella socialità umana il simbolo e il sacro appaiono impliciti. E questa dimensione strutturata è il mito, la parola originaria che va di bocca in bocca, viva per ora virum (mythos : cfr. l'ingl. mouth e il gotico muddjan, a partire dall'indoeuropeo *mudh-, bocca). La fiaba ne è la forma depotenziata -né i confini sono così netti da determinarsi appieno, essendo le funzioni narrative, derivate ultime degli schematismi archetipali, un sèma comune a fiaba e mito.

La dimensione orale del mito ne determina poi la forma, come epos, sede della memoria cultuale e lato sensu culturale di un gruppo, con le sue cognizioni, le sue leggi.

Ma sono stato più prolisso del dovuto e mi fermo qui, sperando di non aver annoiato troppo.




[Modificato da Interessato74 24/03/2011 01:18]