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I quattro casi più importanti dell'Ufologia italiana

Ultimo Aggiornamento: 29/10/2010 00:32
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24/07/2008 12:38

Come promesso, ecco i quattro casi più importanti dell'Ufologia Italiana, che ho trovato e riunito in un articolo che ho fatto tempo fa

A voi

IL CASO FACCHINI:

Uno dei casi piu' importanti, un "classico" incontro ravvicinato del terzo tipo italiano (conosciuto, peraltro, anche all'estero) si verifico' il 24 Aprile 1950, di notte, ad Abbiate Guazzone (Varese). Un operaio di 40 anni, Bruno Facchini, fu attratto da uno strano scintillio, poco dopo che era cessato un forte temporale: credendolo un inconveniente di una vicina linea elettrica, si diresse verso la fonte di luce. Arrivato sul posto, vide uno strano oggetto al suolo: era come una palla schiacciata, con la superficie "quadrettata da striscie verticali ed orizzontali, posti ad intervalli regolari", che sembrava toccare terra solo tramite una scaletta esterna sorretta da due tiranti e conducente ad un'apertura rettangolare, illuminata, e dotata di un "portello aperto". All'interno v'era un'altra scala, come pure dei tubi, delle bombole collegate in fila e dei manometri.L'oggetto era alto circa 10 metri: il teste si trovava a 4/5 metri di distanza. Presso la scaletta v'erano due esseri, un terzo era posto sopra una specie di "elevatore meccanico" e stava saldando un "mazzo" di tubi esterni all'ordigno, producendo lo scintillio che aveva notato il testimone. Gli idividui indossavano degli scafandri e delle maschere trasparenti all'altezza degli occhi: all'interno pareva esserci del "liquido", attraverso cui si notava un viso di carnagione molto chiara. In corrispondenza della bocca penzolava un tubo terminante con un bocchettone; la loro altezza era di circa 1,7 metri ed apparivano simili ad esseri umani. Il Facchini, credendoli piloti, si mostro', chiedendo loro se avessero bisogno d'aiuto: gli esseri compirono, allora, strani gesti, emettendo suoni grutturali. Spaventato il teste scappò,notando che uno degli individui aveva impugnato un oggetto che aveva al collo, puntandoglielo contro: da esso si sprigiono' un raggio che lo colpì alla schiena, facendolo cadere. Noto' in seguito che i tre (o quattro) esseri rientrarono nell'oggetto, chiudendo il portello esterno: il ronzio precedentemente emesso aumento' d'intensità, finche l'ordigno decollo' a forte velocità, sparendo alla vista. Al mattino, tornato sul luogo, il Facchini trovo' 4 orme circolari di 1 metri di diametro ciascuna,poste in quadrato, a 6 metri di distanza l'una dall'altra. Alcune zone d'erba erano bruciacchiate e, fra esse il teste raccolse alcune schegge di metallo: quest'ultime vennero fatte analizzare e furono definite come "metallo antifrizione".

IL CASO PUGINA:

Un altro caso di incontro ravvicinato di una certa importanza, e considerato uno dei più autentici nella casistica ufologica Italiana, è il caso di Renzo Pugina (37 anni), avvenuto il 14 Ottobre 1954 a Erba (Como), il località Parravicino. Pugina stava rientrando nella propria abitazione quando noto' uno strano chiarore in un viale solitamente buio (in quanto incassato tra due muri). Alla sommita' di una scaletta vide uno strano essere, alto 1,3 metri circa, avvolto in una luce diffusa, che volgeva all'uomo il suo fianco sinistro. La sua testa era coperta da un casco, trasparente sul davanti: si intravedeva un viso di aspetto umano, con occhi di tipo mongoloide. Il corpo fino a mezzo busto e le braccia erano ricoperti da una tuta a scaglie metalliche leggermente luminosa. La parte inferiore era, invece, costituita da un gorsso "tubo" liscio e leggermente conico (non vi era alcuna presenza di gambe). A questa struttura era attaccato, perpendicolarmente, a pochi centimetri da terra, un altro "tubo" di diametro molto inferiore e lungo quanto un' "apertura di braccia". Quasi nella parte terminale, si trovava, in posizione orizzontale (come se fosse in bilico), un disco dalle dimensioni di una ruota di bicicletta, che aveva la forma di una calotta nella parte superiore. Apparentemente, non esisteva alcun contatto fra il "tubo" ed il "disco". Passato lo stupore, il teste sali' qualche scalino, ma si fermo' quando l'essere ruoto' il busto e la testa verso di lui, con movimento meccanico. L'essere gli punto' contro un oggetto che teneva nella mano destra e che aveva la forma di torcia elettrica, di cui il Pugina scorse il "lumicino". L'uomo si trovo' "immobilizzato": riusci' pero' ad infilare una mano in tasca ed a toccare un mazzo di chiavi, al cui contatto il teste riusci' a compiere ancora qualche passo verso l'essere, pronunciando solo una parola, "Marte". A questo punto, la creatura fece una "smorfia di disappunto" e si alzo' a circa un metro da terra, emettendo un ronzio.Quindi si allontano', volando alla stessa altezza, lungo il viale della Villa vicino a cui si trovava: in fondo alla stradina, sali' di quota aumentando la velocita' e disoolvendosi in una luminosita'. Il Pugina rimase molto impressionato dall'esperianza. Sul luogo dell'avvistamento rimase, per 3/4 giorni una "macchia" inodore non umida ne' grassa, che, almeno inizialmente, continuava ad espandersi.

IL CASO MONGUZZI:


La mattina del 31 luglio 1952. Giampiero Monguzzi, un ingegnere della società Edison, in gita con la moglie Pinuccia Radaelli sui monti del Bernina (SO) sopra il ghiacciaio Scerscen, tutt'a un tratto avvertì una brezza gelida che sembrava produrre un rumore simile a quello delle sartie di un antico veliero; poi, improvvisamente l'ambiente circostante diventava curiosamente silenzioso. "Ero vicinissimo a mia moglie, .. gridavo e mi accorgevo che lei non mi udiva. E vedevo anche che mia moglie apriva la bocca, ma non veniva fuori la voce. Era un 'silenzio compatto', un 'vuoto' da non stare in piedi." Subito dopo questa sensazione di "silenzio assoluto", tipica di molti avvistamenti e persino di alcuni rapimenti UFO, i Monguzzi avvistavano un grande oggetto scintillante salire dalla parte inferiore del ghiacciaio e posarsi silenziosamente sulla neve. Era un enorme piatto argenteo, largo almeno dieci metri. "Avevo a tracolla la macchina fotografica,ma quando scattai non sentii il solito clik. Forse non avevo fatto nessuna fotografia. Rimasi a guardare. Il disco restò per pochi secondi ancora senza vita. Poi vidi un uomo coperto da uno scafandro dai riflessi metallici venire verso di me. L'istinto mi suggerì di scappare, ma la paura mi teneva inchiodate le gambe. Forse non mi aveva visto. Infatti l'uomo (almeno credo sia stato un uomo) andava verso l'esterno della circonferenza del disco. Lo percorse tutto intorno come se stesse eseguendo un'ispezione dell'apparecchio. Si fermava ogni due o tre passi guardando verso l'alto del velivolo. Camminava molto impacciato in quello scafandro che aveva i contorni non ben definiti e sembrava quasi peloso. Aveva in mano uno strumento cilindrico simile ad una torcia elettrica. Non so quanto sia durato tutto questo, forse cinque minuti da quando il disco si era appoggiato sul ghiacciaio, ma non posso stabilire con esattezza un tempo preciso". L'essere, a ispezione terminata, rientrò presumibilmente nel disco da un ingresso laterale, invisibile dal punto di osservazione di Monguzzi, visto che ad un certo momento l'UFO si alzò in volo, con una parte che si mise a ruotare, e sfrecciò via. In quel momento Monguzzi scattò altre due fotografie. "A mano a mano che il disco si allontanava sentivo tornare la vita intorno a me. Chiamai mia moglie e la voce veniva fuori. Il vento aveva ricominciato a fare quella strana musica come tra le sartie di un veliero". A quel punto i due, pur se spaventati, ebbero la forza di avvicinarsi al luogo dell'atterraggio; non trovarono però alcuna traccia della discesa del disco, neanche un'impronta." Nemmeno noi lasciavamo impronte sul ghiaccio, ma il disco doveva avere un peso straordinario, era impossibile non avesse lasciato nemmeno un segno. Se mi si chiedesse come faceva a volare, penso ad una forza magnetica potentissima e contraria a quella di gravità terrestre. Solo quella forza silenziosa poteva assorbire le onde sonore e, respingendo la Terra, permettere il sollevamento dell'apparecchio. Comunque, quando il disco lasciò lo Scerscen superiore, lo fece ad una velocità fra i 200 ed i 300 chilometri orari"
Alcune settimane dopo Monguzzi divulgò la propria storia sulla stampa. Il clamore suscitato fu fortissimo e l'opinione pubblica si divise tra scettici e credenti. La storia varcò i confini nazionali. Un'agenzia francese si disse disponibile ad acquistare le foto per cinque milioni (una cifra enorme, per l'epoca); una pubblicazione americana si disse parimenti disponibile ed una casa cinematografica propose persino di girare un documentario sull'incontro ravvicinato. Ma quando ormai Monguzzi era all'apice della popolarità, il 22 ottobre, ospite presso la redazione milanese di Radio Sera, confessò pubblicamente di avere creato un falso! Le foto erano state realizzate in realtà utilizzando un modellino di cartone ed un pupazzetto; la truffa era stata architettata assieme a due suoi cugini, Mario e Alfredo Gaiani, con la collaborazione di una guida alpina dello Scerscen. Monguzzi ammise di avere realizzato il falso per beffare i giornalisti, per, scrisse la stampa, "dimostrare che lui, aspirante giornalista, aveva i numeri per essere assunto e non respinto, come era avvenuto sino al giorno prima". A dimostrazione di quanto affermato, Monguzzi si fece fotografare con il modellino di cartone ed il pupazzetto che simulava il visitatore alieno.
Moriva così il caso Monguzzi. E moriva tra le polemiche, visto che diversi ufologi sottolinearono ripetutamente, e invano, che i modellini mostrati da Monguzzi non corrispondessero alla perfezione a quanto si vedeva nelle foto. Senonchè nel bel mezzo di un'indagine su certe strane tracce in un campo della Lombardia siamo venuti a contatto con il signor Antonio Sprecapane. "Conoscevo Monguzzi", ci racconta Sprecapane, "perché lavoravamo entrambi alla Edison Gas. Un giorno Monguzzi mi chiamò dicendomi che voleva essere aiutato nella realizzazione di un bozzetto di modello dello Scerscen Superiore. Mi disse che doveva fare vedere che aveva fotografato un disco volante sulla bocca dello Scerscen, al limite della seraccata. Mi disse proprio così. Doveva dimostrare che era un bravo fotografo, questa fu la sua motivazione".
Quando chiediamo a Sprecapane se le foto fossero false, il nostro uomo scuote la testa. "Onestamente, io ho visto i negativi originali. Nelle prime sequenze si vedevano Monguzzi e la moglie sulla montagna, a metà c'erano le foto del disco, e poi ancora la montagna. Dunque, le fotografie erano state scattate sul Bernina e non a casa. Se osservate le foto del disco sul ghiacciaio, vi renderete conto che è impossibile ricreare la stessa pendenza. Le foto sono state scattate chiaramente da una persona che era molto più in basso rispetto al disco. Dato che, quando ricreammo il 'plastico' del Bernina, lo facemmo sul terreno, fu impossibile fotografare così dal basso. Tra l'altro, le montagne del plastico erano uno sgorbio, con la terra che cercava di simulare la roccia. Dopo che uscì la smentita, Monguzzi mi fece vedere il modellino del disco, era un cono di cartone tenuto assieme dallo scotch. Dell'alieno, mi disse che era un pupazzo assemblato con lana e filo di ferro. Mi sembrò una spiegazione ridicola". Ma perché dunque Monguzzi aveva preferito passare per visionario? "Quando uscirono le foto, si scatenò un putiferio. Monguzzi venne interrogato da agenti della CIA e dai nostri servizi segreti; mi disse che le sue foto erano state ingrandite ad altezza di parete dall'Aviazione (non mi disse di quale Paese). Era veramente terrorizzato. Ricordo che ad un certo momento mi disse di tirarmi fuori dalla vicenda, che era nei pasticci. Io, che avevo famiglia, preferii obbedire. Del resto, Monguzzi la pagò cara. Venne cacciato dalla Edison. I dirigenti, che in un primo momento facevano la fila per farsi fotografare dalla stampa assieme a lui, dopo la smentita si resero introvabili. E lo licenziarono. Ricordo che dopo una nostra intervista alla RAI fummo interrogati, mi chiesero se nelle foto, ormai dichiarate false, riconoscessi realmente il Bernina; fui torchiato anche dai dirigenti della Edison, che volevano sapere che ruolo avessi avuto nella vicenda." Sprecapane sostiene che Monguzzi avrebbe realizzato il plastico prima ancora di divulgare le foto! Prima, e non dopo. Ciò significherebbe che l'ingegnere monzese, prevedendo delle noie, si sarebbe costruito una via di fuga. Cosa temeva dunque Monguzzi? La risposta è forse in una sua dichiarazione al giornale Il Popolo del 23 ottobre 1952: "Ho pubblicato le foto solo due mesi dopo l'avvistamento in quanto avevo paura. Sono giovane e ho un figlio, e a 29 anni non volevo essere sequestrato o ucciso. Perché, sebbene sia personalmente convinto che si trattasse di un abitante di un altro pianeta, pure il disco poteva appartenere ad una grande Potenza che avrebbe fatto tutto il possibile per eliminare l'indiscreto scopritore di un formidabile segreto militare."
Monguzzi aveva realmente fotografato un prototipo top secret ed era stato poi costretto a passare per imbroglione, pena la morte? O più semplicemente era incappato nel classico debunking e cover up che toccò, negli anni della Guerra Fredda, a molti sfortunati UFOtestimoni? Si era del resto negli anni Cinquanta e l'America aveva messo in pista i suoi agenti della disinformazione migliori. Certo, per saperne di più occorrerebbe parlarne con il diretto interessato, ma Monguzzi sembra sia sparito dalla circolazione. Quando ne chiedemmo notizie a Sprecapane, ci fu risposto: "Non ho notizie precise, ma uno dei nostri ex colleghi dell'Edison mi ha detto che gli era successa una cosa strana, che era morto in un curioso incidente d'auto."

IL CASO CENNINA:

Rosa Lotti Dainelli, una contadina di quaranta anni, sposata e madre di quattro figli, il giorno della festa di Ognissanti uscì di buon ora (erano le 06:30) dalla propria abitazione, una casa colonica del podere "La Collina", posta in un luogo isolato, per recarsi alla messa nella chiesa di Cennina. Aveva con sé un mazzo di fiori che voleva offrire alla madonna e teneva in mano le scarpe nuove e le calze nere per non sporcarle o sciuparle durante il cammino, dal momento che per arrivare a Cennina doveva percorrere un sentiero di campagna. Giunta nei pressi di una piccola radura scorse davanti a sé. A circa 20 metri, un oggetto scuro, appuntito che sporgeva dai cespugli. Avvicinatasi poté constatare che l'oggetto era una specie di grosso fuso, molto panciuto nella parte centrale e molto appuntito alle estremità, situato in posizione verticale ai margini della radura, presso un alto cipresso, con una punta infilata nel terreno. Era alto circa due metri e largo, al centro, circa un metro e venti centimetri, di colore marrone opaco. Nella parte centrale si notavano, opposti l'uno all'altro, due finestrini a forma di oblò e, in mezzo a questi, ricavato nel "cono" inferiore, uno sportello di "vetro" chiuso. Improvvisamente due esseri sbucarono dai cespugli, tagliandole la strada. Erano piccolissimi, di statura paragonabile a quella dei bambini di quattro o cinque anni (circa un metro), ma perfettamente proporzionati e del tutto simili a noi. Indossavano una tuta grigia, aderente, che copriva tutto il corpo, compreso le gambe e i piedi. Sulle spalle avevano una corta mantella e sul torace un giubbotto accollato con piccoli bottoni lucenti. In testa portavano un casco apparentemente di cuoio che copriva, con due dischetti, anche le orecchie. Uno dei due cominciò a parlare in un linguaggio sconosciuto, talvolta rivolgendosi all'altro; poi sorridendo, le prese dolcemente di mano il mazzo di fiori e una calza e, esaminati i fiori, si avviò verso il fuso. Alle proteste della Lotti, l'essere le restituì una parte dei fiori, ma non la calza e, appoggiando la mano sullo sportello, lo fece aprire verso l'esterno. Dal momento che la teste si trovava a meno di due metri dal fuso, poté vederne l'interno, ove scorse due piccoli sedili rotondi e piatti, senza spalliera, fronteggianti i due oblò laterali. Gettati fiori e calza all'interno, l'essere trasse fuori un "rotolo" colore marrone scuro a forma di cilindro con le estremità arrotondate, dalla superficie liscia e uniforme, che puntò longitudinalmente verso la donna, guardando alternativamente esso ed ella, dando l'impressione di scattare delle fotografie. In quel momento la donna ebbe paura di poter essere uccisa; così con passo svelto, si allontanò dalla radura. Gli esseri non tentarono di seguirla, ma sembrarono porgerle l'oggetto, come per dono. Poco dopo la vegetazione le nascose il tutto alla vista. L'unica traccia rinvenuta successivamente in loco fu un foro sul terreno, presumibilmente dove era infilato l'oggetto, constatato da tutti coloro che, appresa la notizia, vollero recarvisi a vedere (compreso il marito della teste). Rosa Lotti risultò persona di tutto rispetto, seria, sana di corpo e di mente. Una conferma indiretta del caso sembra venire da due bambini del luogo, i fratelli Ampelio e Marcello Torzini, rispettivamente di sei e nove anni. Infatti, in un "pensierino" scritto a scuola alcuni giorni dopo il fatto, Ampelio raccontò che, il mattino del primo novembre, mentre si trovava nella zona col fratello a pascolare i maiali, udì parlottare e scorse la Lotti che discuteva con gli "omini", nella radura. Il fratello maggiore corse ad avvisare il padre, ma quando questi poté arrivare. La radura era ormai deserta. Quest'ultima testimonianza potrebbe, però essere il frutto della fantasia dei bambini, forse stimolata dall'illustrazione che Walter Molino dedicò al caso sulla copertina della "Domenica del Corriere". Ad ogni modo i due bambini non si mostrarono molto loquaci, lasciando intendere un divieto di parlare imposto dai genitori. Le indagini furono svolte anche dai Carabinieri.

Alessandro

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