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Rapa Nui, la spirale, il labirinto e la ricerca dell’Ombelico del Mondo

Ultimo Aggiornamento: 05/04/2011 14:15
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22/03/2011 23:20

Noi sappiamo che il nome originario dell’isola di Rapa Nui, poi chiamata Pasqua perché scoperta in quel giorno, era Te Pito Te Henua, che significa l’ombelico e l’utero. Non posso negare che ciò mi ha indotto a qualche, forse significativa, riflessione. L’interpretazione di tale nome simbolico è estremamente importante perché nel nome c’è l’essenza del soggetto che lo porta, come ci indica quel passo biblico dove Adamo crea, su delega di Dio, gli altri animali chiamandoli per nome.
Un po’ frettolosamente ci vengono spiegati questi due termini come richiamanti l’equilibrio e la creazione.
Certo, tale interpretazione è corretta, ma forse un’altra visuale sarebbe stata più calzante.
Vediamo di fare tutti insieme un ragionamento e partiamo dall’ombelico.
Certamente può considerarsi un simbolo d’armonia, perché punto d’equilibrio tra i pesi e le proporzioni del nostro corpo, ma è anche un simbolo di perfezione creativa, parallelamente con un altro simbolo, analogo ed omologo, che è la spirale.
La spirale si sviluppa armonicamente e col massimo equilibrio, con la forza progressiva della sezione aurea come, ad esempio, nelle conchiglie Nautilus, quindi è simbolo di uno stato di perfezione creativa originaria che, in questi termini, trova la sua controfigura in un altro simbolo, che è il labirinto.
Infatti la differenza simbolica tra la spirale, un percorso perfetto che porta dal centro alla periferia e viceversa, senza possibilità d’errore, ed il labirinto dove, sia per entrare ed accedere alla parte più interna, sia per uscirne, è indispensabile non sbagliare percorso, non cadere nelle tante insidie di cui è disseminato, è proprio l’errore.
Sotto questo profilo, tanto per completare il parallelo tra il nome antico di Rapa Nui ed una interpretazione fondata sui simboli della spirale e del labirinto e del rapporto o correlazione tra essi, possiamo chiederci se sia possibile assimilare sul piano simbolico l’utero col labirinto.
Anche su questa considerazione possiamo addurre degli argomenti fondanti.
L’utero è un percorso pieno d’insidie per i piccoli semi maschili che a milioni non riescono a percorrerne il corretto itinerario, senza contare le tortuosità delle Tube di Falloppio…
Quindi l’utero è un labirinto impervio per gli spermatozoi, ed è assimilabile a tale simbolo anche sotto il profilo del percorso iniziatico, perché tanto dall’utero che dal labirinto uscirà al mondo un nuovo essere, nato o rinato che sia.
Ma c’è un’altra differenza tra la spirale ed il labirinto e precisamente il fatto che la spirale ha una sola uscita ed il labirinto invece ne ha due.
Infatti se si studia analiticamente il mito legato al simbolo si scopre che Teseo è uscito grazie al filo di Arianna (anche se alla fine del suo viaggio perderà il padre Egeo) e Dedalo, invece, tramite le ali dal medesimo fabbricate sia pure con la grave perdita del figlio Icaro.
L’uscita unica della spirale è ancora una volta coerente con il significato di perfezione del simbolo, perché l’unità è la perfezione originaria.
La dualità del labirinto invece ci riporta al nostro mondo imperfetto, perché scisso in una binarietà che non è composta, come afferma Platone, di due unità, ma di due metà che per tutto lo scorcio della manifestazione terrena fanno di tutto per ricongiungersi e, nel loro moto perenne e mai definitivamente compiuto di attrazione, creano l’energia che muove il mondo che conosciamo.
L’errore è binarietà, la perfezione è unità, e diventa suggestivo tale collegamento se si pensa che la più grossa svolta alla teoria di Darwin è stata data da Jacques Monod, premio Nobel 1968 che, proprio sull’errore che diviene, per mutate condizioni ambientali, presupposto di selezione qualitativa della specie, ha fondato la sua rivoluzione del genetismo moderno.
Da questo ragionamento è possibile dedurre, e gli archeologi, se vogliono, ne possono trarre utilità, come nei siti dove venga rinvenuta la raffigurazione della spirale, vedi Gotland in Svezia ad esempio, ci sia memoria di una civiltà delle origini, l’Età d’Oro dei Greci o l’Eden biblico, del mondo prima della caduta, mentre l’errore, la binarietà caratterizzano quell’altro successivo mondo che viene invece rappresentato o richiamato nei siti dove sussiste la rappresentazione del labirinto.
Allora possiamo chiederci: sì ma cosa significa il nome di Rapa Nui, ombelico-spirale e utero-labirinto che contiene entrambi i simboli?
E se rappresentasse proprio il luogo o il tempo nel quale avvenne la caduta, quando nacque l’errore e si passò dall’unità alla binarietà?
Carpeoro
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23/03/2011 11:17

Premetto che non sono un esperto di simbolismi, ma a mio modesto modo di vedere e per quello che vale la mia opinione hai fatto una buona analisi.

Sandro Ciambella
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23/03/2011 11:31

Ottima analisi...
Infine dici che, stando alla comprensione dei simboli, l'odierna isola di pasqua dovrebbe essere il luogo d'origine della nostra specie...
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23/03/2011 12:26

Re:
Secr3t, 23/03/2011 11.31:

Ottima analisi...
Infine dici che, stando alla comprensione dei simboli, l'odierna isola di pasqua dovrebbe essere il luogo d'origine della nostra specie...



Oppure Rapa Nui potrebbe essere semplicemente un luogo ove qualche sopravissuto da una grande viviltà precedente ha commemorato e rappresentato l'età precedente.
Certo la spirale è una traccia evidente di una civiltà superiore, e ci sono anche altri luoghi, molto importanti, Gotland, per esempio...
Carpeoro


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23/03/2011 13:13

Già...la spirale è presente in molti luoghi e anche su determinati oggetti.
E' un qualcosa di ricorrente...come lo sono anche le piramidi.
Sempre affascinante la teoria di una civiltà antica che si è persa (distrutta?) in tempo remoti per qualche motivo.
[Modificato da Secr3t 23/03/2011 13:15]
23/03/2011 14:09

Il tema dell'ombelico del mondo, come è noto, è universale. E' banale ricordare come ad esempio gli Elleni, dopo la semileggendaria prima guerra sacra, la distruzione di Crisa e l'ampliamento-accorpamento della controversa federazione religiosa di Antela nell'anfizionia delfica, identificassero il loro omphalos ("ombelico", appunto), nel santuario di Apollo a Delfi, posto approssimativamente nel centro geografico dell'Ellade (=inizialmente la Grecia centrale, poi tutta la penisola ellenica).

Ogni civiltà arcaica ha in genere il suo fulcro cosmico: nel momento in cui una società complessa si viene strutturando, essa ridefinisce lo spazio nella quale ha finito per organizzarsi e lo ridefinisce in base all'eredità culturale che porta con sé dai tempi del primitivo nomadismo. La regione geografica in cui una società nasce subisce in tal modo una vera e propria distorsione etno-spaziale.

Civiltà superiore originaria? Diaspora primigenia? A mio modo di vedere, il processo di definizione del simbolo è nella sostanza più complesso da delineare e in apparenza meno eclatante dal punto di vista della sua causa.

Tutte le straordinarie civiltà che homo sapiens ha creato all'origine dell'età antica costituiscono l'affioramento di un'eredità stratificata. Agli occhi dell'uomo contemporaneo, esse appaiono come prodigiose gemme sbocciate in mezzo al nulla. Di qui l'esigenza di trovare (magari disinterpretando le fonti scritte e orali) una matrice primeva, il luogo d'origine, "il punto che non tiene" nella nebulosa storia del principio. La distorsione prospettica che determina quest'ottica ingannatrice nasce dall'incompletezza della documentazione unita all'idea, cognitivamente impropria per l'antico, che una grande realizzazione tecnologica, architettonica o semplicemente organizzativa, nasca sempre e solo da un'improvvisa rivoluzione, una frattura epistemica con il passato amorfo. Sfugge spesso un connotato essenziale delle civiltà arcaiche: la loro strenua tensione alla continuità nonostante le fratture oggettive che l'ambiente naturale impone agli uomini nel tempo (mutamenti climatici, crisi alimentari, eventuali disastri e conseguenti migrazioni) e nello spazio (montagne, oceani).

Per conservare questa continuità culturale le diverse specie umane (buone ultime i Neandertaliani e noi) che hanno percorso il pianeta nell'ultimo milione d'anni, posseggono come unici strumenti primordiali il linguaggio e la memoria. Linguaggio e memoria tesi alla conservazione dell'identità culturale si fanno mito, cioè parola originaria creatrice, intesa a preservare e perpetuare un bagaglio di ritualità, cognizioni, punti di riferimento vitali per il gruppo, di fronte alla continua minaccia di distruzione che l'ambiente stesso offre (per l'umanità arcaica ogni istante è un'insidia, praesentemque viris intentant omnia mortem, "e tutto agli uomini minaccia imminente la morte" è il caso di dire con Virgilio). Il mito, nella sua compulsività formulare, è il tessuto connettivo magico-rituale che collega il cielo alla terra (astri e punti notevoli sul territorio: montagne sacre, camini delle tende, piramidi e spiraliformi ascese sciamaniche sono tutte immagini dell'asse del mondo intorno a cui la sfera celeste ruota), il presente al passato (ogni novità, una volta che sia accettata, entra nella grande narrazione come se fosse sempre stata lì, e nel contempo verità primordiali si offrono con l'immediatezza dell'oggi, pur conservando tratti così primitivi da risultare quasi enigmatici), l'individuo alla totalità (quanti impliciti riferimenti cosmogonici, nelle medicine antiche, dai quattro umori di Galeno ai cinque elementi dell'agopuntura cinese). Tutto il reale, tutto vivo, è così unito in un improprio entanglement magico-religioso pampsichico, di cui spirale, vortice, Maelstrom, labirinto, mandala, sono la rappresentazione primordiale, intessuta dell'intreccio della poesia (che gli antichi bardi indoeuropei chiamavano tessitura di parole) e tenuta insieme dagli intrecci dei quipù, che in varia forma, dalla Cina alle Ande precolombiane, affiorano un po' ovunque quando la scrittura non è ancora nata. Nodi, spirali, intrecci e labirinti si dipartono da un centro venerando e terribile, sia esso l'antro di un minotauro o l'utero mostruoso di Gaia.

L'umanità, si è detto, fu per lungo tempo nomade, nelle savane, nei deserti, fra le montagne, infine sugli oceani, fra caccia e raccolta, fra orticoltura e pastorizia, prima di approdare all'idea di insediamento stanziale che per noi è fin troppo ovvia. Come nomade, non ebbe altra certezza che il cielo stellato sopra di sé e la memoria etnica originaria dentro di sé. Ogni nuovo luogo scoperto fu luogo della mente e del racconto, tappa sulla via dei canti, prima che luogo nello spazio, e ogni nuovo uomo nato in quel nuovo luogo fu l'uomo di sempre nella sua totalità, al centro dell'universo nel suo intero. L'uomo mesolitico, portatore del linguaggio della Dea (Marija Gimbutas), portò ovunque con sé anche il simbolo del grembo originario, colmo di acque, e del suo ombelico: punto cardine della "bara di freschezza" di terra umida in cui seppellire i propri morti nella posizione del nascituro nell'utero della madre, forzatene con legacci le giunture contro il rigor mortis, non tanto per impedirne il ritorno, quanto piuttosto per forzarne la resurrezione nel flusso della vita nel risveglio della Madre Primeva, che la si chiamasse, come i Baschi, Benzozia, come gli anatolici, Cibele, come i Greci, Demetra. Ogni nuovo luogo ebbe dunque il suo ombelico cosmico, fulcro del grembo in cui addormentarsi e rinascere. Non c'è un luogo in cui questa memoria ebbe veramente inizio, poiché dopo la diffusione della specie a partire dall'Africa centrale, per l'homo sapiens dei tempi della madre mitocondriale di duecentomila anni fa e per i suoi discendenti (poche migliaia), che sopravvissero alle crisi climatiche di centotrentamila anni dopo, ogni luogo fu nello stesso tempo nuovo ed originario -e in tal senso, primo di una duplice primalità, nel ricordo e nel futuro della tribù.

Di tempo in tempo, le acque femminili del grembo primordiale, sprizzate dall'omphalos di turno si fusero con le acque maschili del cielo in un connubio distruttore che dette origine a diluvii e sprofondamenti non tanto reali, quanto proiettati (letteralmente) nella sfera celeste del mito: Utnapishtim e Noè e Atlantide e la terra sommersa di Hiva nel Pacifico e i miti precolombiani del cataclisma universale (pachakuti), sono tutti connessi a questa descrizione di un cosmo ciclico che l'uno o l'altro Signore delle Danze distrugge e ricrea sul ritmo dei cicli precessionali, che l'uomo lentamente scoprì e raccontò, prima per prevedere la migrazione delle prede, poi per anticipare i tempi della semina.

Sul piano delle culture materiali, l'archeologia scopre, di tempo in tempo, nuovi focolai archetipici da cui ogni tecnologia e tradizione sembra essersi originata. Prima ancora di Gerico in Palestina (novemila anni fa), Gobekli Tepe, la città cultuale dei cacciatori mesolitici dell'Anatolia di più di diecimila anni fa, i monoliti emersi e sommersi del Giappone forieri del misterioso Jomon incipiente (da Yonaguni al men-hir di Hokkaido), i villaggi indiani inabissatisi alla foce dell'Indo (risalenti al 9500 a.C.), le controverse rovine sprofondatesi al largo delle Antille -e ancora prima, le grandi statue di serpenti e di dee madri scolpite nella roccia in Africa, tra Guinea e Kenya, fra i sessantamila e i ventimila anni fa: tutti luoghi e monumenti che lasciano intravedere un tempo di fioritura più antico, soffocato dalla fine di una glaciazione o dall'avvento di un periodo di aridità globale, e dalle inclemenze che ne derivarono: tutte meraviglie che ci sembreranno out of place, "fuori posto", perché ormai ad essere fuori posto, fuori della dimensione culturale originaria dell'identità umana e della sua spasmodica costruzione del senso, in realtà siamo noi. E noi stessi, per quanto lontano potremo andare, non rinveniremo mai traccia dell'ipotetica civiltà originaria superiore: incontreremo solo gli affioramenti di una memoria mitologica di specie; ma l'ultimo luogo della mente di una tribù nomade ancestrale, vinta per la prima volta da stupore sotto il brillare del cielo notturno, ci sfuggirà sempre, perché in verità l'avremo sempre avuto accanto, in una memoria che non sapevamo di possedere, tanto è per noi ovvia e vitale.



[Modificato da Interessato74 23/03/2011 14:28]
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23/03/2011 14:44

Re:
Secr3t, 3/23/2011 1:13 PM:

Già...la spirale è presente in molti luoghi e anche su determinati oggetti.



Il tutto riscoperto poi con la spirale di Fibonacci: la spirale logaritmica è presente in natura dai "cavoli" alle Galassie... dal micro al macro, passando anche per i Frattali e la teoria della perfezione del Chaos...

cosa lega tutto ciò?

[SM=g8104]

Andrea




"Un essere umano è parte di un tutto che chiamiamo "universo", una parte limitata nel tempo e nello spazio.
Sperimenta sé stesso, i pensieri e le sensazioni come qualcosa di separato dal resto, in quella che è una specie di illusione ottica della coscienza.
Questa illusione è una sorte di prigione che ci limita ai nostri desideri personali e all'affetto per le poche persone che ci sono più vicine.
Il nostro compito è quello di liberarci da questa prigione, allargando in centri concentrici la nostra compassione per abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza."
Albert Einstein
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23/03/2011 15:18

@Interessato74
Il problema della origine dei simboli e quello coìstrettamente connesso della interpretazione sostanziale dei medesimi è motlo dibattuto.
La soluzione del tutto personale che ne ho dato io che mi ha sempre aasistito in tutte le mie analisi e sintetizzata qui:
cunnetwork.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9709517&#idm1...
Cordialmente
Carpeoro
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Re: Re:
acebear, 23/03/2011 14.44:


Il tutto riscoperto poi con la spirale di Fibonacci: la spirale logaritmica è presente in natura dai "cavoli" alle Galassie... dal micro al macro, passando anche per i Frattali e la teoria della perfezione del Chaos...
cosa lega tutto ciò?
[SM=g8104]
Andrea



Vedi Andrea il concetto di assenza di errore nei percorsi spiralici rispetto ai percorsi labirintici, nonchè la armonia della sezione aurea contenuta nel simbolo, fanno pensare ad una traccia di qualcosa di perfetto agli occhi di chi lo osservava, magari mentre questo orizzonte si allontanava o scompariva sempre più per una serie di eventi distruttivi.
Carpeoro


24/03/2011 01:14

Gentile Carpeoro,

Ho letto con l'attenzione che meritava il suo interessante specimen di summa symbolica.

Innegabilmente, gli spunti di riflessione sono infiniti. Per molti aspetti le soluzioni proposte appaiono davvero persuasive. Su alcuni dettagli rimango perplesso.

Partiamo dagli archetipi.

Se non erro lei li definisce come eventi naturali o soprannaturali, storici o metastorici, entrati a far parte della memoria ancestrale comune (inconscio collettivo). Gli archetipi che lei elenca in effetti rimandano alle opposizioni fondamentali di diverse metafisiche antiche (dai presocratici al platonismo) e appaiono costruiti, come lei ha ribadito qui e se ho ben compreso, su uno schema duale, frattura di un'unità fondamentale. Questi archetipi ricordano tuttavia più le idee platoniche, che gli archetipi di iunghiana memoria (come che li si enumeri). In effetti, lei sembra proporre un'idea dinamica di archetipo (evento, quasi innesco), in contrasto con la struttura formale, spesso fluida nella demarcazione ma statica nella sostanza, di arkhétypos in quanto impronta o stampo(typtein) primordiale (arkhé). Forse per mia limitazione, sono incline a leggere nel mito più degli archetipi iunghiani o simil-iunghiani (tratti psicologici fondamentali associati a stati e schemi relazionali di comportamento assimilati e annidati nell'inconscio profondo comune alla specie) che quelli platonici, i quali sembrano rispondere a una finalità di organizzazione logico-ontologica del reale nei suoi fondamenti. Il rapporto fra le due facce dell'archetipo, da questo punto di vista, mi appare problematico. Infatti, le storie che si delineano nelle fiabe e nei miti seguono al più un ordine di coerenza e simmetria e hanno come protagoniste delle figure archetipali definite associabili a classi di comportamenti particolari. Nel contesto in cui il pensiero platonico attinge la dimensione dell'archetipo come idea (principio tipologico formale trascendente intellegibile, autoconsistente ed esistente a sé), sembra invece dominare la dimensione che il filosofare platonico ascrive al logos, nei termini di generi dell'essere e di logica oppositiva, più che la dimensione del mythos, di cui pure Platone ad altro scopo si serve. Il rapporto mythos-logos in Platone è una tematica assai delicata (dirlo è banale). Platone (e il suo discepolo Aristotele questo merito lo riconsceva al maestro) fu l'ultimo a usare gli archetipi del mythos nella loro funzione autentica. Ma nel farlo attuò una sorta di transustanziazione concettuale: l'archetipo del mythos, che l'uomo greco sente immediatamente percepibile, si trasfigura in archetipo logico-computazionale. In genere, l'innovazione filosofica antica (che come al solito si presenta come riaffermazione coerentizzata della kultur tradizionalmente consacrata) ripropone termini e dinamiche tradizionali in vesti nuove. Così ad esempio sotto altri cieli Confucio, rettificando i nomi, impone un nuovo senso alla parola cinese classica che indicava il potere magico dell'eroe culturale, ridefinendola come virtù. Un processo simile a quello platonico: una dimensione tradizionale, rituale, viene ripensata in termini intellettualistici, subendo al contempo una trasformazione semiotica: talché, se ontologicamente le opposizioni archetipali da lei delineate potrebbero, in linea ipotetica, considerarsi un prius, empiricamente, sul piano storico-antropologico, il prius è invece proprio l'archetipo del mito come figuralità situazionale condivisa e radicata nella psicologia del gruppo. In pratica, viene prima la simmetria narrativa cara all'inconscio che si esprime nel tessuto del sogno e del mito e poi l'intellettuale logica binaria e l'opposizione monade-diade.

A loro volta, archetipi come l'Ombra (intesa come doppio), la diade androgina Animus-Anima, l'autorità incarnata dal vecchio saggio, e tutte le figure archetipali accessorie che Jung declina (un altro esempio è il materno nella sua ambivalenza creatrice e fagocitante), sembrano preesistere al mito non tanto come eventi di una determinata natura o soprannatura, quanto piuttosto come schematismi latenti della psiche, apriori kantiani dell'inconscio, acquisiti nello strutturarsi delle dinamiche parentali e di relazione. Da questo punto di vista, gli archetipi sembrano stare al mito come i miti alla letteratura. Il mito è una delle sedi in cui l'archetipo è riconoscibile (magari la più limpida), ma forse non è l'unica. Nell'ambito relazionale in cui l'archetipo come schematismo latente della psiche sembra strutturarsi, la segnicità pare, di fatto, un elemento irrinunciabile. Gli studi dell'etologia umana di Irenaeus Eibl-Eibesfeldt identificano a chiare lettere la segnicità preverbale che ancora oggi l'uomo si porta appresso come retaggio evolutivo stratificato. La segnicità intrinseca al comportamento come manifestazione sociale materializza di fatto l'archetipo nel concreto della relazione di gruppo. Tale segnicità primigenia si esprime, semplicemente, come esigenza di simmetria distintiva: distinguere, pertinentizzare l'io dal mondo esterno, il comportamento o l'entità amica da quella ostile etc. Il simbolo, come convenzione arbitraria, nasce verosimilmente da questo continuo reinterpretarsi del gioco comunicativo, fra mimica, rito, azione, comunicazione, tra-dizione come affidamento (ma anche tradimento), consegna, di un contenuto.

Pertinentizzare implica, ovviamente, dividere, ritagliare spazi nello spazio. Implica, ipso facto, la definizione del sacro, in quanto effetto del riconoscimento della potenza imprevedibile del reale di cui il gruppo ha esperienza. La relazione etimologica da lei instaurata fra templum e tempus, da tale punto di vista, coglie un aspetto vero del problema, ma nella sua interpretazione (non me ne voglia) se n'è di fatto offuscata la sostanza. Il templum non è templum perché ricostruttore di un certo tempus. Il termine tempus in sé, in latino, non indica un tempo del mito in senso specifico, ma il generico tempo. Né è vero che tempo sia il termine primitivo da cui deriva templum. Piuttosto, entrambi derivano da una radice *tem-, "tagliare", "separare", comune al verbo greco tem-no, é-tem-on "tagliare, dividere", che è alla base del termine greco tém-enos, "spazio sacro separato". Secondo un processo semantico comune a tutte le antiche lingue indoeuropee (e non solo a quelle), il sacro è separato, in uno spazio a sé, il tem-plum. Il tem-pus è invece, per altra via, divisione temporale, scansione, del flusso degli eventi, collocati in anni, mesi, settimane, giorni -e per altro tale scansione appare sacralizzata anch'essa, non solo nel tempo del mito, che in sé è il non-tempo da cui invece lo scandirsi particellare del tempo si dipana, bergsonianamente spazializzandosi. Una notazione ulteriore, che conferma questa equivalenza fra sacro e separato, è negli stessi termini sacro e santo, derivati dall'indoeuropeo *sak-, ancora una volta "tagliare".

Se consideriamo che il ruolo del simbolo è dividere, separare, pertinentizzare, automaticamente vedremo che simbolo e sacro sono entrambi figli della segnicità primaria della relazionalità umana, i cui archetipi appaiono sin da subito agiti in una dimensione che viene strutturandosi nel tempo come rituale, creatrice di senso -nella socialità umana il simbolo e il sacro appaiono impliciti. E questa dimensione strutturata è il mito, la parola originaria che va di bocca in bocca, viva per ora virum (mythos : cfr. l'ingl. mouth e il gotico muddjan, a partire dall'indoeuropeo *mudh-, bocca). La fiaba ne è la forma depotenziata -né i confini sono così netti da determinarsi appieno, essendo le funzioni narrative, derivate ultime degli schematismi archetipali, un sèma comune a fiaba e mito.

La dimensione orale del mito ne determina poi la forma, come epos, sede della memoria cultuale e lato sensu culturale di un gruppo, con le sue cognizioni, le sue leggi.

Ma sono stato più prolisso del dovuto e mi fermo qui, sperando di non aver annoiato troppo.




[Modificato da Interessato74 24/03/2011 01:18]
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24/03/2011 06:55

re
Ho a fondo affrontato l’approccio psicanalitico agli archetipi e conseguentemente ai simboli.
L’ipotesi junghiana relativa allo studio dei simboli e dei miti pone al centro della sua costruzione teoretica il concetto di inconscio collettivo.
Si tratterebbe di un mondo interiore annidato nella psiche dell’uomo affollata di tracce di immagini (archetipi) ereditate dalla serie degli antenati e comuni a tutta l’umanità.
A essi Jung riconosceva un ruolo causale determinante, nel suo studio specifico, rispetto alla genesi e per tracciare un cammino terapeutico delle psiconevrosi oltre che un effetto importante anche e soprattutto nella vita normale e religiosa di ogni individuo.
Lo scarto rivoluzionario di Jung rispetto a Freud consisteva nel passaggio dall’inconscio individuale freudiano all’inconscio collettivo, che sicuramente impresse alla sua teoria psicanalitica un taglio meno razionalista e meno prono rispetto al metodo scientifico, restituendo importanza alle istanze religiose e irrazionali della psiche.
Tuttavia, non per questo tale approccio comportò un riavvicinamento con le dottrine esoteriche. Guenon, Evola e altri importanti studiosi del ‘900 risposero alla figura dell’inconscio collettivo, con quella del superconscio, con una risposta, nel segno di Nietzche, della inevitabile allocazione sovrumana dei miti, essendo tracce di una origine divina.
Ma queste critiche, a mio avviso, pur parzialmente condividibili, non limitano la portata rivoluzionaria dell’impostazione junghiana: Jung prende come oggetto della sua indagine il mito proprio dopo che il medesimo era stato tanto denigrato da pensatori e psicologi, dagli stessi definito e considerato come una forma di pseudo o paraconoscenza, come fantasia o invenzione, non suscettibile per tale sua connotazione di un’indagine razionale, scientifica.
Ma in tal modo la teoria Junghiana come tutte le posizioni di confine si è trovata nel secolo appena trascorso a dover sopportare il fuoco di fila delle opposte fazioni: tanto quello degli esoteristi metafisici, come abbiamo dianzi riportato, in prima fila i più autorevoli, Evola e Guenon quanto molti psicologi razionalisti che criticarono Jung talmente aspramente, che la sua scuola rimase isolata nei confronti delle altre correnti europee di pensiero.
Questo breve excursus storico è utile per definire meglio l’esistenza di un universo di eventi storici o metafisici che possono essere narrati col mito o rappresentati col simbolo.
Tale è la loro collocazione spaziale, mentre per quanto attenga alla speculare collocazione temporale occorre riferirsi alla definizione di tempo mitico, in illo tempore.
Quello di tempo simbolico invece è concetto un po’ più complesso perché risponde ad una esigenza di relativizzazione, per usare un termine caro ad Einstein, che comporta l’introduzione del concetto di ciclicità.
L’unico modo di definire un tempo per i simboli è quello, con riferimento alla ripetitività delle rappresentazioni, della ricorrenza delle medesime a seconda dei cicli, di quelli che Giovambattista Vico, con rifermento alla storia denominò corsi e ricorsi.
Quindi il tempo dei simboli è un tempo ciclico.
Da questo universo di eventi, del quale ognuno di noi è consapevolmente o inconsapevolmente compartecipe, tramite quello spazio di condivisione che è la memoria ancestrale, viaggiano nelle generazioni dell’evoluzione naturale umana i miti ed i simboli, i primi secondo una linea retta, e quindi diretta, i secondi per una linea spiralica, e quindi ciclica, comunque mediata da chi è attore della rappresentazione.
Tutti i miti talmente forti e radicati da smarrire anche ogni ipotesi o possibilità di collocazione epocale e da apparire connaturati al venire in essere del mondo prendono origine da schemi più ampi che chiamiamo archetipi.
L’archetipo è uno schema cosmico che possiamo definire, in questa sede, universale.
Molti lo definiscono divino ma in questa sede sarebbe inopportuno perché quest’ultimo aggettivo è riservato al campo della fede, che non è oggetto di questo esame.
L’archetipo costituisce evento comune, tanto alla sfera d’azione dei miti, che a quella dei simboli.
Anzi tale contestualità di sfera d’azione diviene strumento per il ricercatore di individuazione degli archetipi stessi.
In tal senso è possible concludere come l’archetipo sia riscontrabile solo quando siano contestualmente presenti la narrazione del Mito e la rappresentazione del Simbolo.
Ma torniamo a Jung che definisce in tal modo l’archetipo:
L’archetipo quindi è un modello innato, facente parte del nostro patrimonio genetico, è un simbolo che ci porta a comportarci in un determinato modo. (Jung, 1957). L’archetipo è un’immagine primordiale – scrive ancora Jung – e denomino primordiale l’immagine, quando essa ha carattere arcaico. Parlo di carattere arcaico quando l’immagine presenta una cospicua concordanza con noti motivi mitologici, quindi c’è sempre questo stretto collegamento del mito col simbolo, specialmente quando si parla di archetipi, perché entrambi ne sono sviluppo e campo d’azione.
In sostanza Jung registrò e codificò a suo modo la stretta relazione esistente fra l’inconscio di un essere vivente e le immagini mitiche.
Da qui il suo crescente interesse per la letteratura greca e latina.
Ma il punto di vista di Jung è, a mio avviso, parzialmente distorto dalla sua impostazione di partenza e cioè da quella preclusione, operante per tutto l'approccio psicanalitico al simbolismo, che io ho denominato pregiudiziale terapeutica.
Tale limite di partenza parte dalla focalizzazione di archetipi, miti e simboli come strettamente riferiti alle loro dinamiche all’interno della psiche umana onde predisporre le terapie più adatte agli stati di sofferenza o disagio.
In sostanza costori ragionavano da medici e solo da medici.
Per tale motivo tale ottica esamina il fenomeno a valle e non a monte, ponendo come presupposto ontologico, ma anche come confine inderogabile, la psiche dell’uomo.
Io ho invece delineato il concetto di memoria ancestrale riferendomi ad un universo cosmico infinitamente più ampio e antecedente rispetto alla definizione del concetto ed alla estensione della psiche umana.
Per concludere possiamo quindi schematizzare il quadro delle tendenze dottrinali sulla definizione dell’archetipo in due categorie: un polo psicologico-psicoanalitico che ignora o esclude l’aspetto sacrale, se non divino, delle forze-energie originarie e che considera il mondo sovrannaturale, come la semplice condivisione di un mero archivio mnemonico subnaturale denominandolo inconscio collettivo, ad esempio Jung, Lacan, Fromm, Hillman, ed un polo esoterico-tradizionalista che ritiene invece che gli archetipi siano forze allocate e provenienti da un mondo sovrannaturale o sacro, che finiscono per essere continuamente presenti nel nostro mondo, richiamati, contenuti o evocati da rappresentazioni simboliche o narrazioni mitiche.
Ma questa distinzione, riguardo alla quale io propendo per la seconda corrente di pensiero, finisce per essere metodologicamente irrilevante riguardo alla scienza della decodificazione dei simboli: l’unico effetto della scelta tra l’inconscio collettivo e il mondo degli dei e degli eroi dell’età dell’oro è la consapevolezza, o meno, da parte nostra di un’origine e, conseguentemente potenzialità di ritorno, da e a Dio. A nostro avviso i primi grandi archetipi, che noi denominiamo protoarchetipi sono quelli fondati sulla specularità: buio-luce, silenzio-suono, dolore-piacere, vita-morte ed altri, sono la nostre prime percezioni, gli eventi primari, tutti derivanti dall’evento base che consiste nella frase di Amleto, Essere o Non Essere, che poi in realtà sarebbe Non Essere-Essere.
Vedremo in seguito come la frase di Amleto caratterizzi non solo la distinzione nella Kabbalah ebraica tra lo spazio dove insiste l’Albero della Vita, denominato Ain-Soph, e la tracciatura del medesimo con le sue Sephiroth, ma il dubbio esistenziale, psicanalitico e letterario relativo ai sogni ed alla distinzione dei medesimi rispetto alla vita reale, sintetizzato dalla massima La Vita è un Sogno e la Morte è il Risveglio del grande scrittore spagnolo Pedro Calderón de la Barca o da Shakespeare medesimo. L’evento base Non Essere-Essere, o anche tutto e il contrario di tutto realizza il Primo Archetipo, che si può denominare Speculum, Specchio, del quale parleremo diffusamente in seguito.
La mia analisi ha collocato l’origine degli archetipi nell’accadimento di eventi primordiali fisici o metafisici, da noi definiti anche storici o metastorici, che abbiano profondamente mutato la prospettiva universale, spaziale o temporale, contrassegnando il fluire degli eventi successivi.
Questi segni, o segnature come furono definiti dagli autori alchemici ed esoterici più importanti, si collocano stabilmente nella memoria ancestrale, l’archivio cosmico condiviso universalmente, anche se non sempre o quasi mai consapevolmente, assumendo la forma di archetipi.
Gli archetipi, in quanto presenti nella memoria ancestrale, giungono ad essere comunque collocati anche nell’inconscio di ognuno di noi, l’inconscio individuale, dove, per naturale e automatico meccanismo di catalogazione della nostra memoria, vengono elaborati, tramite, come abbiamo già esposto, un procedimento di sintesi o, meglio, di compressione, in simboli o in schemi simbolici.
Da tale loro luogo di provenienza i simboli possono affluire in una area di consapevolezza, la coscienza individuale, oppure, nella fase di sonno e tornando alla loro forma originaria di archetipi, in una area che rimane al di sotto della consapevolezza, che ho denominato subconscio individuale, nella quale si traducono nei sogni.
Quando i simboli affluiscono nell’area di consapevolezza, e cioè nella coscienza individuale, vengono elaborati razionalmente e ciò comporta la nascita anche della narrazione mitica, in quanto narrazione degli eventi primordiali, cioè la traduzione in miti.
Infine gli schemi simbolici affluiscono nell’esistenza di tutti noi divenendo simboli del quotidiano, se trasmessi inconsapevolmente, quindi per Tradizione, oppure simboli spirituali se trasmessi consapevolmente, cioè per Iniziazione, o, infine, fiabe, leggende e allegorie, ove siano la traduzione letteraria o figurativa della narrazione mitica, cioè dei miti.
Carpeoro
[Modificato da carpeoro 24/03/2011 07:08]
24/03/2011 14:52

Gentile Carpeoro,

La sua interessante risposta illumina in maniera assai precisa molti punti nodali del problema.

Sicuramente l'indagine junghiana degli archetipi risente del pregiudizio terapeutico, o meglio dei vincoli intrinseci alla sua funzionalità terapeutica.

L'idea, o forse sarebbe meglio dire la prospettiva d'approccio, che si è tentato di prospettare da parte nostra, è un po' diversa e nasce da considerazioni di carattere evolutivo.

La realtà rappresentata dall'archetipo, a mio modestissimo avviso, è un'entità che oggi chiameremmo fuzzy, cioè sfumata.

In primo luogo, si assesta come comportamento implicito acquisito per sviluppo interno in una dialettica permanente con l'ambiente (inteso nel senso più lato), fra essere nel mondo ed essere con altri. E' uno schematismo in rebus del modo di relazionarsi, intrinseco all'automatismo inconscio (psichismo) prima della specie e poi dell'individuo. A un livello più profondo, nella zona di penombra fra le pertinenze della fisica e della biologia, l'archetipo stesso affiora già nell'incerta nebbia di frontiera in cui si inscena il dramma non lineare di quelle dinamiche di autoorganizzazione della physis che sfociano nella vita. Come omeostato, cioè come struttura autoregolantesi lontana dall'equilibrio termodinamico, individuo e gruppo si definiscono in termini di reazione-relazione con l'ambiente e con i propri simili. In tale dimensione si stabiliscono i connotati imprescindibili di identità-condivisione in cui singoli membri di una specie e gruppi sociali si strutturano. Quanto più si fa complesso il nodo relazionale, tanto più ergonomico deve essere lo strumento con cui il nodo relazionale si manifesta e si interpreta. In tal senso, l'archetipo come comportamento si fa archetipo come segnale, comunicazione-interpretazione mimica. Il suo fine è appunto, come lei puntualizza, distinguere. Il segnale distintivo, nella sua dimensione contrastiva, presuppone il linguaggio, la cui articolazione è solo questione di sviluppo neurale sufficiente. Quando il segnale distintivo-contrastivo si traduce come articolazione verbale, in pratica mito, rito, drammatizzazione, simbolo, sacralità nascono a un parto, per riprendere un'altra espressione vichiana. Nell'indifferenziato big bang in cui l'archetipo si traduce in simbolo articolato, le distinzioni non sussistono in sé per sé: sono soltanto questione di adattamento operativo-situazionale, ed è ovvio che sia così: nel concreto, un omeostato è una struttura plasmabile in lotta per conservare un'identità: ne consegue che adattabilità nella continuità è l'unica risorsa possibile. Quando l'archetipo comportamentale, divenuto segnale distintivo, si traduce in linguaggio, l'omeostato biologico compie semplicemente un salto di qualità organizzativo, trasformandosi in omeostato socio-culturale, e deformando l'ambiente prima sul piano segnico, poi sul piano materiale. Gli archetipi diventano i suoi apriori normativi: affondano le loro radici nel bios, si definiscono di primo acchito come gestualità relazionale, si strutturano quindi come simboli fra parola e techne, articolandosi poi in un contesto situazionale e infine specializzandosi.

In quest'ottica il suo speculum, che pure con tanta raffinatezza articola i primordia del dualismo essere-non essere, luce-ombra, sembra (almeno così la vedo io, ma quasi certamente mi sbaglio) appartenere a un momento di progressivo raf-fin-arsi, fin-alizzarsi e de-fin-irsi dell'archetipo stesso.

Di per sé, in origine, la selva archetipale (silva portentosa) sembra agire come un intreccio di comportamenti adattabili-inglobanti per garantire continuità in relazione con il contesto. Il pool archetipico comportamento-situazione si manifesta spontaneamente in una dimensione di archetipo-segnale nella dinamica del branco, per poi evolvere gradualmente come archetipo simbolo-rito-narrazione all'interno della memoria della tribù (archetipo ethos e archetipo ethnos); infine, si traduce in archetipo-paradigma nell'organizzazione di una cultura più avanzata, che da ultimo, approdando alla provincia logica del pensiero, ridefinisce, nella tematizzazione filosofica e scientifica, l'archetipo-paradigma nei termini di archetipo-teorema. Questo mia piccola schematizzazione, per quanto povera, cerca di spiegare come mai, nonostante tutti gli sforzi del pensiero umano di "unizzare" rigidamente, per usare un termine caro a Gentile, la realtà storica ci offra sempre culture con un patrimonio di miti tanto più lussureggiante quanto più si pesca nel profondo delle ère arcaiche. La ragione sta nel fatto che l'archetipo è in sé coerente e coeso nello sviluppo, ma intrinsecamente polimorfo e multifunzionale -dunque concretamente adattabile.

Da questo punto di vista, lo speculum pare assumere l'aspetto meno separativo di una membrana permeabile all'osmosi (quasi un amnios), fermo restando il fatto che in un certo momento dello sviluppo l'avvento del simbolo implica l'avvento della separazione -quindi del distinto, del conosciuto, da un lato, del sacro, del trascendente, dall'altro.

Nell'ultima fase della sua evoluzione, l'archetipo-teorema si traduce, tendenzialmente, in techne, in manipolazione e controllo. Non sono, per mia parte, un fan sfegatato delle teorie estropiane, del postumanesimo e della metafisica di Tipler, né credo che la venerata visione teologica-evoluzionistica di Pierre Teilhard de Chardin sia immune da mende: in ogni caso, tutte queste pur differenti visioni del mondo puntano il dito in una direzione significativa per il nostro discorso. L'archetipo-techne, in quanto esplicitazione del modo in cui l'uomo, bene o male, plasma l'ambiente, implica, come orizzonte, l'idea dell'archetipo che si attua come ultima linea di sviluppo autoorganizzato della natura, in quanto quest'ultima viene forzata ad assumere, nel bene a volte, troppo spesso nel male, la facies di corpo inorganico dell'uomo. In tal senso, propriamente, l'uomo, nel tentativo di ridurre l'universo a guscio prostetico di sé stesso, sembra farsi attuatore di archetipi,

deum vitam accipiet divisque videbit
permixtos heroas et ipse videbitur illis


[Modificato da Interessato74 24/03/2011 14:58]
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24/03/2011 17:44

Grazie per l'eccellente analisi,ho compreso tutto.Sembra di assistere ad una tesi di Antropologia.Sebbene capisco la necessita'di esprimersi con un linguaggio consono,vi chiedo gentilmente se fosse possibile che anche noi comuni mortali,potessimo comprendere il significato di tali teorie,senza ricorrere al vocabolario ogni tre parole.Vi ringrazio anticipatamente.
[SM=g9423]
24/03/2011 20:33

Re:
rosental70, 24/03/2011 17.44:

Grazie per l'eccellente analisi,ho compreso tutto.Sembra di assistere ad una tesi di Antropologia.Sebbene capisco la necessita'di esprimersi con un linguaggio consono,vi chiedo gentilmente se fosse possibile che anche noi comuni mortali,potessimo comprendere il significato di tali teorie,senza ricorrere al vocabolario ogni tre parole.Vi ringrazio anticipatamente.
[SM=g9423]



In pratica, dal mio punto di vista, l'archetipo è una forma aperta. All'inizio è un comportamento associato a una mimica all'interno del branco. Poi man mano che il linguaggio verbale si organizza, diventa archetipo culturale (mito, rito, legge, a livelli sempre più "esteriori"). Quando la civiltà tribale si trasforma in cultura avanzata, l'archetipo muta ancora e diventa archetipo-modello teorico, prima filosofico poi specificamente scientifico e tecnico. In questa evoluzione l'uomo finisce per trasformare di volta in volta il suo sistema di archetipi, per poi attuarli nel concreto. Più che un evento che ha lasciato un'impronta condivisa, l'archetipo è una forma originaria, dinamica. Stimolato dalle interessanti idee di Carpeoro, ho suggerito la mia (piccola) idea che l'archetipo, nella sua forma originaria, sia un modo del gruppo e della specie di strutturare le proprie relazioni interne ed esterne: l'archetipo ancestrale per eccellenza somiglia più all'amnios (membrana in osmosi) che allo specchio (limite netto fra immagine apparente e sostanza reale). A chiarire il pensiero di Carpeoro, che è assai complesso, non mi azzardo: penso che il diretto interessato lo sappia fare infinitamente meglio di me.


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24/03/2011 20:41

Re:
rosental70, 24/03/2011 17.44:

Grazie per l'eccellente analisi,ho compreso tutto.Sembra di assistere ad una tesi di Antropologia.Sebbene capisco la necessita'di esprimersi con un linguaggio consono,vi chiedo gentilmente se fosse possibile che anche noi comuni mortali,potessimo comprendere il significato di tali teorie,senza ricorrere al vocabolario ogni tre parole.Vi ringrazio anticipatamente.
[SM=g9423]


Hai perfettamente ragione.
E non sai quanto ci ho lavorato per rendere la esposizione delle mie teorie più chiara e semplice possibile.
Sarà per questo che i miei interventi pubblici somigliano sinistramente ai convegni per la salvezza del cincillà e i miei libri sono acquistati solo da parenti stretti e amici intimi che poi fanno penose figure per fingere di averli letti.
Ma ti giuro che ci proverò ancora a semplificare ....
Carpeoro
[Modificato da carpeoro 24/03/2011 20:43]
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Mille grazie Carpeoro,era proprio la risposta che attendevo.
Bentornato tra gli umani.
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05/04/2011 11:50

Carpeoro, voglio chiederti il permesso di pubblicare su ufoplanet il tuo post d'inizio topic.
Ovviamente con riferimento alla fonte (link di questo topic) e a tuo nome.
Visto che è un articolo che di sicuro interesserà.
Fammi sapere se sei d'accordo.
Ciao!
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05/04/2011 12:11

Re:
Secr3t, 05/04/2011 11.50:

Carpeoro, voglio chiederti il permesso di pubblicare su ufoplanet il tuo post d'inizio topic.
Ovviamente con riferimento alla fonte (link di questo topic) e a tuo nome.
Visto che è un articolo che di sicuro interesserà.
Fammi sapere se sei d'accordo.
Ciao!



Certo che si e ti ringrazio fin d'ora.
Carpeoro


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05/04/2011 12:26

Perfetto! Grazie mille! Oggi pomeriggio provvedo ad inserirlo.
Ciao! [SM=g8144]
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